Ho pensato molto prima di pubblicare questo post. Questo blog era il mio angolo di cazzeggio ma anche di verità. Ho scelto di partire con un attimo di verità, perché non so se sono la stessa persona.
Torno un po’ cambiata, forse con le ossa un po’ ammaccate ma con tanta esperienza in più del mondo e di me.
In questi anni di assenza ho sperimentato la banalità del dolore. E’ stato brutale, disumano e disumanizzante. C’è stato lo shock, il timore di essere entrata in un’altra dimensione tipo sliding doors e di non sapere quale vita è quella reale.
Ed ho scoperto la sua banalità, perché la mia è stata una storia come tante, con il tradimento e l’abbandono. Anche io, come tante donne ho vissuto i famosi “Lei-mi- fa-sentire-giovane”, che ti fanno sentire tanto vecchia e cozza. Anche io ho dovuto accettare la tristezza dei vecchi cliché (primario-infermiera, capufficio-segretaria, e quindi anche comandante–assistente di volo) . Anche io ho punito il mio corpo da cinquantenne, facendolo scomparire, perdendo 18 chili in 5 mesi e arrivando a comprare vestiti nei negozi per bambini. Anche io mi sono trasformata nel Mossad, nella Cia, nell’ NSA, per rosicarmi un po’ di verità ogni volta che la menzogna mi offendeva. Anche io ho pregato, imprecato, provato col buddismo, con la psicoterapia, col counseling, con gli psicofarmaci per cercare scampo alla sofferenza. Anche io ho avuto le crisi di panico, la paura di non farcela, il terrore di essere diventata pazza. E anche io ho mi sono triturata i neuroni a furia di chiedermi “Ma come cazzo ho fatto a non accorgermi che non mi amava più?”.
E ho lavorato duramente per imparare a dimenticare, per accettare che in pochi secondi l’uomo di cui più ti fidavi al mondo si possa trasformare nel tuo peggiore aguzzino. Pochi secondi. Quelli che occorrono ad un cervello umano per registrare la comparsa improvvisa di un pop up pieno di cuoricini da bimbaminkia su un cellulare lasciato inavvertitamente sul tavolo.
Qualche cuoricino e la mia vita cambiò per sempre.
Non era una robetta da una botta e via, di quelle che possono capitare a certi uomini quando sono fuori per lavoro, di quelle così comuni nel suo ambiente (Ancora oggi non riesco a salire su un aereo senza pensare a queste cose. “Questa tizia che mi sta servendo il caffè, è lei che tromberà col comandante stasera?” mi chiedo sempre).
No, era diverso.
Si giuravano eterno amore. Erano infelici perché vivevano a 800 km di distanza e progettavano di farsi una vita insieme. Lui era totalmente stregato. Sembrava che fosse stato rapito dagli alieni e nel suo corpo ci fosse uno sconosciuto. Inquietante. Improvvisamente parlava un’altra lingua, con un codice non suo, e una visione del mondo che non gli apparteneva. Mi guardava senza vedermi, lo sguardo glaciale, assente, da drogato.
Siamo rimasti in stallo un anno. Lui non riusciva ad andarsene di casa ed io non riuscivo a mandarlo via. Cioè lui ci provava ad andarsene però poi tornava piangendo e chiedendomi aiuto. Diceva che quella era una droga e dovevo aiutarlo a disintossicarsi. Ed io, invece di tirargli un calcio nel culo, me lo riprendevo.
Poi un bel giorno lei gli raccontò che aveva lasciato suo marito e lui quella volta riempì la sua macchina di tutte le sue cose e mi disse “Perdonami se puoi, devo andare da lei”.
Lo vidi andar via, lo seguii con lo sguardo fino a quando non scomparve dietro la curva della strada, senza riuscire a piangere, con i sensi attutiti, paralizzati, anestetizzati. Capii che quella volta sarebbe stato per sempre quando vidi le sue chiavi di casa sulla mensola. Non le aveva mai lasciate le altre due volte che era andato via.
Quella notte credetti di morire. Non riuscivo a respirare.
Poi mi sono presa un cane, mi sono iscritta ad un corso di fotografia e ho cominciato a viaggiare per i cazzi miei. Il primo viaggio in solitaria è stato a Cuba. Guardavo l’oceano e piangevo come una demente. Poi ho imparato a godermi la bellezza dei posti senza alcun desiderio di condividerla con lui. Si impara. Si impara a pensare per uno e non per due.
Ed è arrivato il giorno in cui mi sono resa conto che ero felice. E’ stato bellissimo.
Ero in Myanmar. Un autobus locale ci portava sobbalzando verso una valle piena di templi. Guardavo i miei compagni di viaggio, fino a pochi giorni prima emeriti sconosciuti. Chiacchieravamo senza pensieri, raccontandoci tutto, con quella complicità rapida che si sviluppa spontanea dopo certe nottate in treno o in aereo. Li ho guardati con gratitudine, mentre uno dei paesaggi più belli che abbia mai visto scorreva dai finestrini, e ho avuto la folgorazione: ero felice, ero viva, ero capace di ricominciare, di riallacciare relazioni, di farmi degli amici, senza far trasparire nulla di quella sofferenza che mi stava azzannando il cuore fino ad un nanosecondo prima di salire sull’aereo. Sono stati viaggi di formazione, nel vero senso della parola.
Cosa ne è stato di lui? Come tutti avevano predetto, la stronza non solo non ha mai lasciato suo marito (era stata una balla colossale per indurlo ad andarsene di casa e a lasciarmi) , ma, una volta ottenuto il giocattolino se n’è subito stancata e dopo qualche mese lo ha scaricato con un sms.
Io? Ho avuto la fortuna grandissima di avere intorno persone che mi vogliono bene. Ho scoperto che quando credi di essere nella merda e che non ce la farai, ti arrivano in soccorso delle risorse che non sospettavi di avere. Ora mi sento più forte.
Sono una sopravvissuta.
Certo, a volte, ma sempre più di rado, inciampo nel vecchio dolore per un ricordo, un oggetto che amava, un piatto che lui cucinava sempre, o quando poto le sue rose. E allora non mi oppongo, lascio che le lacrime fuoriescano a fiumi, e con loro le scorie tossiche e i fantasmi. Poi passa e, come se mi fossi purificata, ritorno a vivere, ancora più forte.
La mia vita, adesso, mi piace. Sono tornata.